Una vita in valigia
Se lo avessi saputo non l'avrei fatto - questa è stata la frase che mi ha accompagnato per tutti questi anni dandomi un po' di conforto (se di conforto si può parlare quando si tratta di ignoranza) nei momenti di bisogno ed aiutandomi a pensare ad un futuro lontano da qui. Ho 38 anni ed è da 10 anni che vivo a Roma. Mio marito che è un matematico, all'epoca seguiva un corso di specializzazione presso l'Università "La Sapienza" di Roma. Io che sono laureata in lingue a Tirana, lavoravo come insegnante di francese ad una scuola media superiore. Avevamo già un bambino di 9 mesi. Non ce la facevo a reggere la tensione per le difficoltà che può riscontrare una neo mamma che sta crescendo un figlio da sola e che non sa quando può veder il marito che sta in un mondo ignoto per lei (non mi era nemmeno possibile avere un visto di turismo per andare a fare una visita a mio marito insieme a mio figlio). Quindi pensando che fosse il meglio per me ho deciso di partire. Ma come? Non c'era altra alternativa che comprare un visto, ma anche se fosse, comunque non avrei potuto portare con me mio figlio. Ed io ero decisa di non partire senza di lui. Come ho deciso, ho fatto. Ho dato a mio figlio una dose di valium per farlo addormentare e l'ho sistemato in una valigia alla quale avevo fatto dei buchi per farlo respirare. Per tutto il tempo che io mi sono fermata alla dogana lui stava dentro la valigia che io portavo sempre in mano. Quando sono sbarcata a Bari ho visto un altro cielo, sembrava più luminato. Ci tenevo a farglielo veder a mio figlio ma lui continuava a dormire tranquillo. Non si è svegliato neanche quando gli ho detto che c'era la papa. Vedevo mio marito e mi sembrava più magro ma pensavo che fosse un po' stanco. Ero talmente felice che finalmente eravamo tutti e tre insieme e che stavamo per iniziare una nuova vita, che non poteva che essere migliore di quella precedente, che non m'ero nemmeno accorta che stavamo quasi per arrivare a casa. Se si può chiamare casa un appartamento di tre camere dove abitavano oltre a noi anche due altre coppie con bambini. All'istante ho pensato che fosse una situazione temporanea e che dal momento che ero arrivata io con il bambino tutto sarebbe cambiato. Invece ho passato lì altri 3 anni.
Con l'italiano me la cavavo abbastanza bene e quindi ho pensato che magari appena avessi avuto i documenti di lavoro avrei potuto sistemarmi in qualche scuola come insegnante di francese. Nel frattempo un'amica di famiglia mi ha aiutato trovandomi un lavoro come domestica presso una famiglia. Lavoravo 12 ore al giorno e quasi non mi ricordo mio figlio in quel periodo che è durato due anni, perchè andavo via quando lui dormiva e quando tornavo si era appena addormentato. Stavo con lui solo la domenica. Era un giorno di gioia e anche di dolore visto che dovevo costruire tutta la settimana in un giorno. La famiglia in cui lavoravo mi ha aiutato a fare i documenti di lavoro con il patto che i contributi avrei dovuti pagarli io.
Ricordo il giorno in cui ho preso il permesso di soggiorno come uno dei giorni più felici della mia vita. Era solo un pezzo di carta che da quel momento avrebbe definito la mia vita. Era solo per quella carta che io potevo finalmente andare in Albania ed incontrare i miei genitori ed amici che non vedevo da quasi tre anni. Sembrava tanto facile ora. Ero persino più tranquilla quando andavo sull'autobus (cosa che prima miterrorizzava perchè temevo i controllori che quando salivano magari mi potevano chiedere qualche documento, anche se io non solo mi munivo del biglietto ma anche lo controllavo spesso per paura di essermi scordata di timbrarlo. Sembra assurdo ma non so perchè loro mi ricordavano i poliziotti.).
La famiglia in cui lavoravo mi ha licenziata perchè non mi potevano dare le ferie (cosa che non ho fatto nemmeno una volta in tre anni) e quindi mi dovevano sostituire. Ma io avevo bisogno di andare in Albania e quindi anche sentendomi un po' offesa me ne sono andata. Ero una disoccupata. Un'amica mi ha indirizzata verso l'ufficio di collocamento. Sono andata a registrarmi pensando che magari finalmente loro mi avrebbero potuto aiutare a trovare un lavoro che andava incontro alle mie esigenze. Magari fare l'insegnante. L'operatore appena ha visto i miei documenti mi ha fissato dicendomi che non avevo fatto bene a fare la furba, cosicchè appena ho avuto i documenti di lavoro me ne sono andata.
Poi ha aggiunto che non dovevo sperare tanto a trovare un altro lavoro, che ci sono tanti italiani disoccupati e che hanno loro la precedenza. Mi sono sentita umiliata e stavo per dirgli che anch 'io sono una persona anche se non sono italiana e che anch 'io avevo diritto di essere assistita nel momento in cui avevo bisogno. Tanto le tasse le paghiamo ugualmente sia italiani che stranieri. Non ho detto niente di quello che pensavo, stranamente ho detto grazie e me ne sono andata. Mi sono iscritta ad un associazione di donne che mi hanno mandato a fare un corso per mediatori culturali. Mi sono sentita bene durante il corso. I docenti erano sia italiani che stranieri e molto preparati in materia di immigrazione. E' stato merito del corso che ho cominciato a vedere gli italiani come persone alla pari che credevano in un futuro di convivenza. Lì ho imparato che siamo persone che non abbiamo soltanto dei doveri da rispettare ma anche dei diritti che ci devono essere riconosciuti. Ora non dovevo solo dire grazie anche quando non mi davano le informazioni che io cercavo, ma dovevo insistere a chiedere tutto quello di cui avevo bisogno (questo anche se non ero un 'italiana). Potevo sempre chiedere un lavoro che rispecchiasse la mia formazione senza pensare che rubavo niente a nessuno. Mi sentivo come rinata. Nel frattempo con tutti i soldi risparmiati (mi ricordo che all'epoca non mi sono permessa nemmeno un gelato) abbiamo comprato una casa. Finalmente una casa nostra. Mio marito dopo un lavoro da manuale ha cominciato a dare ripetizioni ed io lavoro come mediatrice culturale in un centro di permanenza. Nel frattempo faccio l'insegnante di francese presso l'associazione delle donne.
Spero che il mio lavoro possa aiutare le persone nel loro percorso di immigrazione. Non pretendo di rendere a loro meno doloroso questo percorso, ma se anche pochi di loro non pronunciassero la frase "se l'avessi saputo non l'avrei fatto", ne sarei veramente felice.
Storia raccolta da B.G.