Mi chiamo SINI NGINDU BINDANDA e sono nato in Congo il 25.05.1951
Ero oggetto di un assillo senza tregua da parte delle forze militari e sicurezza del mio paese.
Tutto ciò risale al 1998, all’epoca dei mancati tentativi di lotta delle truppe Uganda – Rwanda – Burundi e dell’ex regime Mobutu di prendere il controllo della nostra capitale Kinshasa. In quel periodo dirigevo una parrocchia francofona ove la maggior parte dei membri erano studenti dell’Est del paese e del Rwanda e quelli rifugiati dal Sudan e dall’Uganda. Ogni Venerdì andavo in chiesa per vegliare, pregare o per invocare intercessioni da solo o in gruppo. Uno di questi venerdì, verso le due del mattino, i militari del nostro esercito, bruscamente e con la forza, aggredendo la stessa guardia, sono entrati nella chiesa e hanno chiesto di me. Non appena mi videro urlarono: “Mostraci dove nascondi le spie Rwandesi, Pastore traditore!”. Sorpreso e spaventato, cercavo comunque con calma spiegargli che coloro che frequentano le nostre riunioni sono studenti universitari e rifugiati, che la mia Comunità Ménnonite, per la tradizione, ha nel suo programma, oltre alla evangelizzazione propriamente detta, l'ospitalità dei rifugiati, l’aiuto e l’assistenza sanitaria sociale di chi ne ha bisogno. E "in nome di ciò" che noi abbiamo accolto tanti di loro nella nostra Chiesa.
Non sapevo che alcuni di questi “rifugiati” sono stati trovati con le armi ed erano dell’esercito nemico. Le mie parole andavano al vento perché la Sicurezza e i militari che avevano scoperto ciò e che avevano perso i loro familiari durante questa guerra ci hanno presi per complici e traditori. Per vendicare i loro familiari, castigavano e maltrattavano tutti i traditori sospettabili. Infatti, in me non vedevano che un traditore e mi hanno picchiato a tal punto di avermi rotto il braccio destro, il collo e il bacino. I dolori psico-fisici li sento anche al giorno d’oggi…
Vivere assillato divenne per me un modo di vita dura e austera; un modo al quale io non ero abituato e per essere al sicuro da tutte le sorprese, lasciare il mio paese era l’unica alternativa per salvare la mia vita sempre più minacciata.
Aiutato dalle Organizzazioni per i Diritti Umani del mio paese e dalla Chiesa, sono riuscito a lasciare il paese. Ho scelto l’Italia perché c'era l'occasione che me l'ha permesso, e anche perché, psicologicamente per me essa era una fortuna inaspettata. Perché, secondo me, l'Italia non aveva un pesante passato colonialista e anche per il fatto che in Italia è presente la Santa Sede, madre di tutte le Chiese ed io, essendo religioso, mi sono detto che mi è andata bene e che ero caduto in buone mani.
Sono arrivato in Italia d'inverno, il 4 dicembre 2002, la gente che incontravo lungo il mio viaggio, gli Africani in particolare, mi consigliavano di andare al Nord d'Italia, a Reggio Emilia dove la Caritas era molto operativa e che su sarebbe stato più facile trovare una sistemazione.
E lì sono stato molto ben accolto perché nello stesso giorno in cui sono arrivato, mi sono presentato come un esiliato politico alla Questura e dopo avermi interrogato molto rapidamente, perché erano molto ben organizzati, mi hanno accompagnato nel Comune dove, a sua volta, mi hanno trovato la sistemazione e mi hanno detto che avrei potuto avere il contributo monetario trimestrale pari a 780,00 euro.
La prima parte di questo contributo monetario, me l’hanno dato dopo due settimane. Lì, veramente, era tutto ben organizzato. (Stiamo parlando del 2002!) La sistemazione che mi hanno dato era presso la Caritas (che collabora con la questura per trovare la sistemazione ai bisognosi) e ci potevo stare per 4 mesi. Dopo quattro mesi sono andato allo sportello del Centro di Sintonia della chiesa San Pellegrino dove sono rimasto per diversi mesi e dove, tra l’altro, collaboravo nei progetti del recupero dei tossicodipendenti, salvando, con i miei metodi “biblici”, due ragazzi…
Il mio percorso di esiliato politico è stato lungo e duro ed è continuato a Roma dove sto ancora oggi.
Purtroppo a volte ero deluso perché le mie aspettative erano diverse dalle quelle che ho vissuto. Il mio primo contatto con l’Ufficio della Questura mi ha provocato un inquietudine soprattutto quando ho dovuto passare ore e ore per essere ricevuto e due anni, prima di essere chiamato e ascoltato presso la Commissione Centrale, che decide l’opportunità o non di riconoscere lo status di rifugiato.
Dopo questo passo c’e sempre incertezza riguardo l’alloggio e il cibo quotidiano. Quando mi reco presso gli uffici specializzati in materia la risposta è spesso: “Aspetta, ti chiameremo noi” E lì spesso non c’è più nulla da sperare. Ma, il mio percorso da mediatore culturale che ho fatto presso la Cooperativa H.E.L.P. mi aiuto a capire e a seguire meglio, con più facilità e consapevolezza il percorso di un immigrato, di un esiliato che con tanta pazienza e voglia di imparare per potersi inserire meglio nella società italiana segue questo percorso.
Ringrazio tante persone, religiosi e laici chi mi hanno accompagnato e incoraggiato nel mio cammino in Italia. Alcuni mi hanno ospitato e mi hanno sostenuto in tutti gli aspetti della vita fino ad oggi. Soprattutto la Cooperativa HELP e il suo staff.